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Personaggi

ROSSELLA CEREA

«Il sorriso è la mia arma: merito di mamma e papà (Vittorio)»

marzo 2018

Qualcuno ha scritto che la bravura (e la conseguente fortuna) della famiglia Cerea non si misura in stelle, bensì in sorrisi. Fateci caso: non esiste foto alcuna in cui i volti dei cinque fratelli - Enrico, Francesco, Barbara, Roberto e Rossella - non siano illuminati da un sorriso sincero. Una sorta di marchio di fabbrica che, in fondo, è uno dei tanti lasciti del leggendario papà Vittorio, mancato nel 2005, poco prima del conferimento della terza stella al ristorante a cui, tra sacrifici e fatiche, aveva dato vita con la moglie Bruna quasi 50 anni prima (oggi veleggia verso i 52 e conta 140 dipendenti nella sede di Brusaporto, più altri 250, tra pasticceria e mensa).
«Avevo 15 anni quando iniziai a dare una mano in sala: un’età in cui non riesci a filtrare e, magari,  tieni il broncio, perché anziché lavorare preferiresti uscire con le amiche. Papà mi prese da parte e mi disse “Lella, l’ospite non deve mai capire se per te è un momento no: devi sempre sorridere, a prescindere; anche se fosse intrattabile: solo così si sentirà a suo agio”. Da allora, la risata è diventata la mia arma», racconta Rossella Cerea, responsabile dell’accoglienza e della direzione di sala.
Sarà per quel sorriso - o per la voce cristallina, oppure per il taglio di capelli sbarazzino - ma si stenta a credere che in queste decadi, mentre creava un impero insieme ai fratelli, sia riuscita a mettere al mondo tre figli: Maria Rita, 17 anni, Rebecca, 15, Pietro, 13, avuti con il marito Paolo Rota, sous-chef di Vittorio. Tutta colpa (anzi, col senno di poi, merito) di Paolo e Vittorio se, fresca di maturità scientifica, decise di accantonare il sogno di studiare medicina. «Ero cotta di Paolo, ma lui mi ignorava. Del resto, come biasimarlo: lavorava per mio padre, gomito a gomito con i miei fratelli! Toccò a me fare il primo passo. Papà all’inizio si mostrò titubante: io avevo 17 anni, lui 27. Poi, da astuto quale era, approvò la nostra relazione, ma mi fece notare che se fossi diventata medico, tra i turni in reparto e quelli in cucina, non avremmo mai potuto metter su famiglia: una prospettiva che non mi piacque affatto. Fu così che optai per la sala».
Capita ancora di sentirsi in soggezione di fronte ai clienti più celebri?
«Non più, ma da ragazzina mi mancava il fiato: essendo a due passi dal Donizetti, venivano a mangiare tutti gli artisti che passavano da Bergamo. Oggi, tutt’al più, mi emoziono. L’ultima volta? Qualche settimana fa, quando è venuto il presidente della mia amata Juventus, Andrea Agnelli: mi ha donato una maglia autografata dalla squadra».
Croce e delizia essere le piccole di casa.
«I miei fratelli sono protettivi: mi coccolano, per loro rimango la piccolina. Ma, al contempo, danno molto peso al mio parere: siamo una squadra».
Secondo Francesco, il segreto del vostro successo sta proprio nell’essere così tanto famiglia.
«Ed è vero: siamo unitissimi. Lavoriamo a contatto 24 ore al giorno e trascorriamo le vacanze insieme».
Mica facile trovare un alloggio, considerato che tra figli e nipoti siete in 24.
«Sì, prenotare può rivelarsi un delirio. La tappa fissa è  l’ultima settimana di vacanze, che trascorriamo a Laigueglia, in Liguria, dove abbiamo una casa: per fortuna papà era stato lungimirante e ne aveva acquistata una grande, in grado di ospitarci tutti».
Tre figli nell’arco di quattro anni e un lavoro “all day long”. Come si gestisce?
«È stata dura, soprattutto all’inizio: una miriade di notti insonni, sapendo che il giorno successivo avrei dovuto rimanere in sala fino alle 2 del mattino, sebbene non avessi chiuso occhio. Oggi è più facile, anche perché vivo sopra la Cantalupa, ma il tempo è sempre tiranno: miro al “quality time”, anziché alla quantità».
Anche loro, come fecero la mamma e gli zii, si danno già da fare nel ristorante?
«Il sabato e la domenica le ragazze danno una mano in sala, mentre Pietro aiuta suo padre in cucina: pulisce il pesce, spolpa i moscardini, pela le patate, robe così. Da grandi? Chissà. In totale i nipoti sono tredici: speriamo che qualcuno di loro decida di portare avanti l’attività di famiglia».
Che cuoca è Rossella Cerea?
«Non mi cimento con portate troppo elaborate, ma me la cavo. Certo, anziché prepararli, i piatti preferisco di gran lunga assaggiarli: papà sosteneva che ho un buon palato. Di certo, ho affinato un “occhio assoluto”. capace di individuare al volo se la pietanza è stata cotta al punto giusto, se la materia prima sia di qualità, o se un sapore sovrasti l’altro».
Una lungimiranza che si traduce nella tua invenzione di maggior successo: i “gift” firmati Vittorio.
«Nati per gioco, 25 anni fa: ci trovavamo ancora a Bergamo e, un San Valentino, pensai fosse carino omaggiare i clienti con graziose scatole contenenti i nostri cioccolatini. Da lì, qualche pacco per Natale, giusto per gli habitué, in un crescendo che si traduce nel boom attuale: il “Gift shop” contempla centocinquanta referenze - alcune realizzate, altre accuratamente selezionate da noi - e gli ordini piovono da tutto il mondo, durante l’arco dei dodici mesi. Spediamo persino a Singapore e negli Stati Uniti. Tra i più richiesti, la Gioconda - il lievitato dedicato a mamma Bruna, in onore del suo vero nome di Battesimo - o il kit con il necessario per realizzare i paccheri alla Vittorio».
I tuoi piatti preferiti?
«Tra i classici, direi la nostra milanese - “L’orecchia di elefante” -, mentre tra i nuovi, scelgo il “Bellini di scampi”, ovvero scampi crudi con crema alla pesca e gelatina al vino».
Quando stacchi, dove ti piace andare a mangiare?
«Sono una che cambia. Ma con i ragazzi, vado sempre volentieri da “Sirani”, a Bagnolo Mella: una pizzeria gourmet con materie prime eccezionali».
Per “ragazzi” intendi i tuoi figli o i vostri collaboratori?
«I miei figli. Ma, in effetti, è un termine che utilizzo anche per riferirmi a chi lavora con noi: alcuni sono qui da trent’anni e finisce che ci condividi tutto. La nostra famiglia non è composta soltanto dai cinque fratelli Cerea, ma dalle tante persone che sono cresciute nelle nostre cucine».
Cosa non deve mancare per entrare a far parte del vostro team?
«Ovviamente è auspicabile conoscere le lingue e avere una buona conoscenza della materia prima. Ma ciò che è imprescindibile è la componente caratteriale: avere la buona volontà di agglomerarsi a un gruppo che, appunto, diventa una sorta di famiglia».
L’idea di aprire a Londra a che punto è?
«Per ora ci siamo focalizzati su altri progetti: guardiamo a Macao e Shangai. Fermi, proprio, non ci piace stare».
I degni figli di mamma Bruna.
«Lei è un vero caterpillar: mi spalleggia sempre, anche quando i miei fratelli vorrebbero temporeggiare su determinate scelte. Come le camere: ma noi due ci eravamo messe in testa di rinnovarle e lo abbiamo fatto».
Sono passati tredici anni dalla morte di papà.
«Eppure non c’è giorno che lei non lo nomini: “Papà direbbe così, papà farebbe così”. Ecco perché, alla Cantalupa, tutto parla di lui: è qui, lo si sente. Se chiudo gli occhi e penso a momenti passati, l’immagine di loro è sempre la stessa: vicini, che si tengono per mano. Sono stati profondamente innamorati l’uno dell’altro, fino alla fine. La sua assenza è stata capace di tradursi in presenza al punto che tutti i nipoti ne parlano come se lo avessero conosciuto, vissuto - sebbene l’unica ad esserselo goduto sia stata Beatrice, la più grande -: mia mamma, con i suoi incessanti aneddoti, ha restituito loro quel nonno perso».
Emozioni che sono confluite anche in “Da Vittorio. Storie e ricette della famiglia Cerea”: un bel regalo a coronamento di questi primi 50 anni.
«Esatto: un libro di ricette, storie e sapori della nostra famiglia: mia figlia ha pianto quando l’ha letto. La nostra forza? Essere uniti. È il carburante che ci ha permesso di raggiungere certe vette e che funge da stimolo per un futuro all’insegna dell’espansione». (rm)


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