Personaggi
Gaia Trussardi: «Ho fatto pace con la morte»
Quando quell’indesiderata «gemella siamese» irruppe nella sua esistenza, aveva 19 anni e si era appena trasferita a Londra, con due obiettivi: imparare l’inglese ed iscriversi a una scuola di cinema a Covent Garden. «Pensavo che avrei potuto fare la regista, raccontare delle storie a modo mio», ricorda.
Tuttavia, sono passate quasi tre decadi prima che Gaia Trussardi potesse raccontare una storia: non una qualsiasi, bensì la sua. Senza cinepresa, ma adoperando una tastiera, uno schermo e un flusso di parole che trascinano il lettore di “Cara morte, amica mia” (Francesco Brioschi editore) nel vorticoso e lacerante dolore di una ragazza di provincia la cui vita sembrava baciata dalla fortuna: bella, ricca, famosa, con una famiglia da copertina.
Fino al 1999, quando Ade si accanì - senza preavviso - su quel nucleo «tanto bello quanto fragile, come un vaso di cristallo», portandosi via «il supporto sul quale aveva sempre brillato», ovvero il capostipite, Nicola Trussardi, vittima di un incidente d’auto: una sorte pressoché identica a quella che, quattro anni dopo, sarebbe toccata al fratello - primogenito di Nicola e Maria Luisa - Francesco, mancato a 29 anni.
Due lutti destinati a marcare per sempre Gaia che, in questo intenso mémoir, si toglie la pelle e scava dentro a quella sofferenza, indirizzando una lunga epistole alla morte, «arrivata in picchiata, senza nessun preavviso».
Gettandola in una spirale di autodistruzione, perché, «per chi resta è un guaio sconfinato. La linea della vita prende una divergenza irreversibile e, per quanto il futuro rimanga ignoto, non si riesce a immaginare il domani. Il presente stesso pesa talmente addosso da annullare e anestetizzare ogni sensazione, ogni aspetto della quotidianità».
È stato faticoso mettere nero su bianco la sua storia?
«È stato simile a un parto: gravoso, ma liberatorio. Ammetto che la stesura di alcuni paragrafi è stata parecchio impegnativa: giunta al punto finale, tiravo il fiato, quasi fossi reduce da uno sforzo fisico. Ho deciso di compiere questo passo quando, ormai, avevo elaborato il mio passato: ogni fatto era giunto a maturazione, potevo condividerlo con il mondo. Ho scelto e soppesato con cura ogni parola, ogni aggettivo: ammaliata dal potere della scrittura e dalla sua potenza espressiva».
Quanto è durata la stesura?
«Un po’: inizialmente, avevo deciso di sviscerare queste vicende per me, a mo’ di diario. Poi ho mostrato qualche pagina a una cara amica: mi ha incoraggiata ad andare avanti, asserendo che avrei potuto essere d’aiuto ad altri».
Ci è riuscita?
«Molte delle persone che lo hanno letto si sono identificate in qualcosa: soprattutto, nel dolore del lutto, che resta un tabù, una vergogna; altre sono rimaste affascinate dai racconti di vita, dai ricordi. Non avevo alcuna finalità, se non quella di avvicinare il lettore ad un sentire che non è esclusivamente il mio, ma accomuna tutti, in fasi dell’esistenza che possono essere più o meno lunghe. La sofferenza si assomiglia: abbozzare immagini per descriverla, condividendola con gli altri, può innescare una piccola guarigione in chi scorre queste pagine... semplicemente, perché ci si sente meno soli. Non ho scritto per presunzione: ad animarmi è stato uno slancio di empatia nei confronti di coloro che sentono, ma non dicono. Tendo ad osservare attentamente il prossimo: constatando quanto sia diffusa l’abitudine di reprimere le proprie emozioni. Sono arrivata alla conclusione che, sul piano emotivo, siamo in lentissima evoluzione: quasi non fossimo veramente capaci di vivere. Del resto, rifuggiamo la nostra finitudine».
Come ha reagito sua madre, Maria Luisa, alla pubblicazione?
«Non è riuscita a leggere il libro per intero: per lei è troppo doloroso. Ma, durante le nostre estati all’Elba, condivido con mamma altri scritti: poesie e riflessioni che, spesso, posto sul mio profilo Instagram. Mi ha spronata a proseguire, riempiendomi di complimenti per quello che, a tutti gli effetti, è un dono: quando impugno una penna mi sento pervasa da un’entità terza».
Nell’immagine di copertina viene immortalata in bianco e nero - la tipologia di foto che prediligeva suo padre -, ma dietro l’obiettivo c’è suo marito: l’attore Adriano Giannini. Insomma, quell’istantanea è un incontro tra le sue figure maschili di riferimento, tra il passato e il presente.
«Eppure è nata quasi per gioco, a Pasqua di due anni fa. Eravamo in vacanza all’Elba: pioveva e faceva freddo, così ho chiesto ad Adriano - che è anche un fotografo talentuoso - di farmi qualche scatto con indosso i suoi abiti. Quando ho dovuto scegliere l’immagine per la copertina, ho pensato fosse perfetta: è eterea e sfocata, come la vita; inoltre, volteggio su me stessa, circondata dai cipressi: il simbolo di quella morte che mi è sempre stata alle calcagna».
Scrivere le riesce bene. Ha mai considerato di cimentarsi con la biografia di suo padre?
«Papà meriterebbe di essere celebrato maggiormente: mentre era in vita, non gli sono stati riconosciuti gli onori e gli spazi che, invece, gli spettavano. Ma, a frenarmi, è il fatto che vorrei emanciparmi dalla mia storia e dal mio cognome, attraverso la scrittura. Piuttosto, preferirei lavorare a una mostra in sua memoria».
A pagina 25 si legge: “Sono nata in una famiglia che aveva un’azienda. O forse era l’azienda a possedere la famiglia”
«Ogni nucleo rappresenta, di per sé, un elemento identitario con cui fare i conti. Nel nostro, vigeva una fortissima immedesimazione con il lavoro, soprattutto perché la mia infanzia e la mia adolescenza sono coincise con l’inizio della massima espressione del marchio. I miei genitori erano molto indaffarati: aggiungiamoci il senso del dovere, tipicamente bergamasco».
Complesso.
«Eppure era la mia normalità: non mi son posta il problema finché, confrontandomi con gli altri bambini, ho realizzato quanto il mio cognome risultasse altisonante. Io, timidissima, vivevo con l’occhio di bue perennemente puntato addosso. Senza parlare delle aspettative».
Quali aspettative?
«Sin da piccola, percepivo una sorta di pregiudizio da parte del prossimo; un condizionamento silente, che ritrovavo anche all’interno del milieu familiare: mio padre ambiva all’eccellenza, in ogni campo. Voleva trovare il talento di ognuno dei suoi figli: benché, non sempre, ne fossimo dotati. Prendevamo lezione di qualsiasi cosa: dal violino al pianoforte. Ma il mio vero amore si rivelò la chitarra, che mi concesse solo a 15 anni. Gli riconosco, però, che su mia sorella Beatrice ci vide lungo: intuì da subito la sua inclinazione per l’arte e la fece seguire da un insegnante di disegno (dal 1999, Beatrice è presidente della Fondazione Nicola Trussardi, impegnata nella promozione dell’arte contemporanea, ndr)».
Croce e delizia di chiamarsi Trussardi.
«Sarebbe ingiusto che mi vittimizzassi per i miei natali. Sì, è vero: ci sono stati elementi di sofferenza - in primis le tragiche morti di mio padre e di mio fratello - ma ho goduto di privilegi immensi. Sono cresciuta in un ambiente colto, stimolante, fertile. Certo, ci sono cose che pago a tutt’oggi: anche questo libro, per dire, è preceduto dal pregiudizio, ma chi va al di là del cognome, ne rimane colpito».
Un preconcetto che riguarda anche la sofferenza: quasi che la sua appartenenza sociale la rendesse immune dal provare dolore.
«In questi anni ho collaborato con il centro di accoglienza della Croce Rossa: ho conosciuto persone venute in Italia sui barconi, torturate, stuprate, sopravvissute bevendo la propria urina. Arrivate a destinazione, vengono guardate dall’alto in basso, alla stregua di delinquenti. Eppure, molti di loro hanno il sorriso scolpito sul viso. Lavorare in questo contesto mi ha aiutata a sviscerare il tema del pregiudizio: ho toccato con mano come la disperazione sia una tematica universale».
Diventando madre di Nicola e Isabella si è riscoperta simile a suo padre.
«Come lui, sono esuberante, entusiasta: ho picchi di ilarità che culminano in imitazioni, raffiche di battute o serate di karaoke. Sono incapace di stare sul divano, con le mani in mano: vivo nel timore di sprecare tempo».
In cosa, invece, si è discostata rispetto all’educazione ricevuta?
«Mettendo al centro i desideri dei miei figli, rispettando le loro inclinazioni e i loro talenti. Amo gratificarli: sono cresciuta in un’epoca in cui era raro sentirsi dire “bravo” da un genitore. Cerco di ascoltarli, sempre: che mi vogliano leggere un tema o chiedere un consiglio. Se hanno bisogno di me, evito i “dopo”. E non mi pongo in maniera saccente: è un’attitudine che genera distanze incolmabili».
Da ragazzina non poteva vestire come le coetanee: sua madre sceglieva personalmente i vestiti che avrebbe indossato.
«Ecco perché ai miei figli ho dato totale libertà, in fatto di look: è capitato che uscissero di casa indossando un’accozzaglia di robe che nulla avevano a che fare l’una con l’altra! Ma ritengo che l’abbigliamento sia un mezzo per esprimersi e sono ben felice che non si siano omologati alle divise tipiche della borghesia milanese. Non li ho mai vincolati: nemmeno quando Isabella mi chiese delle discutibili sneakers con lucine e led che brillavano ai piedi di tutte le sue compagne».
Per lei, la maternità ha avuto un ruolo catartico: ha innescato la guarigione di un corpo segnato dall’anoressia. Ha dichiarato che i primi tre anni dei suoi figli sono stati i più belli della sua vita: quale momento rivivrebbe all’infinito?
«Parecchi. Ma, il più immediato, è il ricordo del tragitto da casa al parco, che facevo con tutti e due, ancora non in grado di camminare troppo a lungo, data la tenera età. Avevo Isabella, più piccola, nel passeggino e Nicola in piedi, sulla pedana. Conducevo, da dietro, la mia micro carovana: i miei figli erano liberi, ma contenuti in un mio abbraccio che arginava, senza toccarli. Un’immagine molto metaforica dell’esistenza. Di un rapporto giusto tra genitore e figli. Spingere proteggendo, essere una guida efficace senza imporsi, senza essere protagonisti. Sorvegliare la libertà altrui, mantenendo la direzione con discrezione».
Nel 2018 ha lasciato l’azienda di famiglia, dopo sei anni alla direzione creativa. Uno strappo doloroso?
«Non sono una che si lega troppo alle cose, né alle case. Ho un carattere mutevole, improntato al cambiamento: non mi sono mai identificata totalmente con un mestiere. Ero direttrice creativa del marchio Trussardi, so concepire e produrre una collezione dall’inizio alla fine, sono una sociologa - perché è ciò che ho studiato - sono una musicista, ora sono una scrittrice (e spero di esserlo a lungo!). Insomma, ho diverse sfaccettature, ma in un ambito ben preciso: non sono un medico, né un avvocato. So fare tre cose, ma le so fare».
Perché ha detto addio alla moda?
«È stata una scissione con quel mondo e i meccanismi che lo governano, improntati al consumo. Alla base, esiste un problema di filiera, di sovrapproduzione e saturazione del mercato. Ho scientemente scelto di uscire, constatando che la moda era ormai diventata un prodotto: anziché un contenuto, veicolato da un prodotto. È andata totalmente persa l’identità dei brand: si è schiavi del merchandising e del commercio. Per farla semplice, la direzione era quella di un appiattimento totale. Per me è fondamentale essere coerente con gli ideali in cui credo: fedele a me stessa».
Cosa rappresentano per lei, oggi, Bergamo e la dimora di famiglia?
«Come le accennavo, non sono una che si affeziona alle cose, né alle case. A Bergamo ho vissuto fino ai 18 anni: poi mi sono trasferita a Londra e, infine, a Milano. L’unica residenza a cui sono legata è quella dell’Elba: è il mio luogo del cuore. Ciò premesso, rivendico con orgoglio la mia bergamaschità e sono fiera dello spirito di appartenenza che lega i miei concittadini. Quando i bimbi erano piccoli, facevamo spesso scampagnate domenicali sui colli; ora, invece, faccio ritorno per andare a trovare le amiche d’infanzia». Rossella Martinelli