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Economia

L'EDITORIALE

100 giorni. 34 mila morti. Epicentro Bergamo.

giugno 2020

Effetti paragonabili a quelli di un disastro naturale, di un’incontrollabile calamità che lascia evidenti tracce del suo passaggio. Alberi sradicati, case divelte, defunti. Ma la sua durata, 100 giorni, fa sì che si possa parlare di una “guerra”, un lungo estenuante bombardamento. E mentre Bergamo, fiera della propria Atalanta viveva un momento di generale euforia qualcosa era in agguato: un nemico invisibile, infido e contagioso, il virus. Per strada non ci sono macerie, ne rami spezzati o alberi abbattuti. Sono però cadute le nostre certezze, al loro posto la convinzione di una nuova vita, differente e più fragile di quella che conoscevamo. Non solo diversa, precaria. Una lunga serie di interrogativi affastella inevitabilmente i nostri pensieri obbligandoci a riflettere, a interrogarci allo specchio. Siamo in grado di apprezzare oggi una rinnovata normalità? Quanto siamo felici di essere ancora vivi? Di riprendere la nostra quotidianità? Di tornare a lavorare? E ancora, quante difficoltà sono emerse in questo lungo periodo di fermo? Più che una riflessione ad alta voce, questi interrogativi ci costringono - proprio come siamo stati obbligati a fare nelle diverse e lunghe settimane nelle nostre case/rifugio - a un monologo. Abbiamo messo in discussione tanto, probabilmente tutto. Relazioni pubbliche e private. Abbiamo visto affiorare le debolezze nostre, del nostro territorio, della nostra economia. Su questo mi soffermerò qualche minuto in più. Alle silenti morti di imprese italiane, già nella situazione che ha preceduto la pandemia - abbiamo visto chiudere 250 imprese al giorno per quasi 10 anni dicendo quindi addio a 850.000 aziende - si aggiungeranno circa 400.000 attività che, tirata su la serranda dopo il lockdown, non ce la faranno a riprendersi. Una strage di conoscenze e competenze, di posti di lavoro e quindi di famiglie e imprenditori, che versano in gravi difficoltà perché privi di ammortizzatori sociali, categorie mai davvero attenzionate dalla politica tanto meno dai loro sindacati di categoria. Dal vivere in emergenza a finire in preda all’usura il passo è breve. Del resto, con le banche ben coperte dalle loro fideiussioni, serrate dietro un burocratico e disumano cinismo, queste categorie sociali vittime di chi si nasconde agendo dietro il “politicamente corretto”, rischiano di finire a gambe all’aria, di vivere al riparo sotto un ponte e di fare la fila alle mense della caritas. È emersa, in occasione di un forzato pit-stop, tutta la debolezza del nostro sistema economico, come una bassa marea, sono affiorati tutti i mali della nostra società: rottami, copertoni, vecchi elettrodomestici che dopo poche ore, la romantica bellezza del mare ricopre. Una economia che vive sulla dinamica del giro, incassi che servono a coprire debiti che a loro volta ne coprono di precedenti. Una salute finanziaria del tutto apparente, solida come un castello di carte.  Una catena di Sant’Antonio che, se arrestata, ti lascia con solo i debiti da pagare. Ma quanto lavoro nero è venuto alla luce? Quante attività irregolari abbiamo contato? Quanti debiti sono emersi? Il mostro ci ha aperto gli occhi. E questa nuova luce deve essere il motore di un cambiamento. L’Italia, è il caso di dirlo, deve mettersi in regola. A partire proprio dalla politica: che pensi maggiormente al futuro del paese e meno alle questioni di partito. Il consenso lo avrà chi saprà fare e lo farà con serietà. Azioni forse dolorose. Medicine amare ma efficaci. Ora che abbiamo toccato con mano gli effetti di una secca, non possiamo più mettere la testa sotto la sabbia. Abbiamo visto con i nostri occhi, vissuto sulla nostra pelle, ne portiamo i segni sulle spalle. È finito il tempo delle approssimazioni, delle mancanze celate, dei teatrini. Sappiamo non esistere la penisola che non c’è. Paolo Agnelli


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