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Su e giù per Bergamo alla ricerca delle «Stagioni» di Maurizio Cattelan

giugno 2025

Invita a una profonda riflessione sulla ciclicità della vita e della storia, perennemente scandite da ascese e cadute - pur senza rinunciare alla consueta irriverenza - il progetto espositivo diffuso che Maurizio Cattelan (l’artista italiano più famoso al mondo) ha realizzato per Bergamo, riscrivendo la storiografia della città.
Si chiama «Seasons» (e sarà visitabile fino al 26 ottobre): perché nulla, più delle stagioni, rende il senso della caducità e dell’evoluzione dell’esistenza.
Cinque opere, in quattro tappe: un percorso che si snoda tra la Galleria d’arte moderna e contemporanea, Palazzo della Ragione, l’ex Oratorio di San Lupo e la rotonda dei Mille generando - come riassume il curatore (nonché direttore della GAMeC) Lorenzo Giusti - «un cortocircuito con la storia italiana». Del resto, tra i protagonisti spiccano un insolente infante - con tanto di camicia rossa - a cavalcioni di Giuseppe Garibaldi,  un’aquila risalente al ventennio, ormai spiaccicata a terra e un Hitler inginocchiato e incappucciato (rielaborazione dell’iconica «Him», del 2001).
Una mostra politica? Affatto. «Non è nata da un’urgenza ideologica, bensì da un confronto con il tempo e con ciò che lascia dietro sé: rovine, simboli, silenzi. Parla di ciò che crolla e di ciò che resta, di figure cadute dall’alto e di oggetti che trattengono la memoria, anche quando nessuno li guarda», ha spiegato a “La Repubblica” l’artista padovano.
Si è reso necessario prendere a prestito il virgolettato giacché ai tanti giornalisti scodinzolanti che lo hanno rincorso su e giù per Città Alta e città bassa durante l’anteprima stampa, Cattelan - pur non lesinando selfie, battute, risposte nonsense e sorrisi - ha spiegato di essere intervenuto «soltanto per fare le foto: delle opere vi ha già raccontato tutto Lorenzo».
Partiamo, dunque, da quella che fin dalle luci dell’alba si è imposta come la più iconica dell’esposizione, nonché croce delle forze dell’ordine, bombardate dalle chiamate di chi, transitando per la rotonda dei Mille, invocava il 112 affinché accorresse in aiuto del moccioso che si era arrampicato in cima alla statua di Garibaldi. Si chiama «One» e rappresenta, appunto, un bambino in sella al comandante dei Mille. Con le dita della mano destra mima una pistola: un gioco? O, forse, un tentativo di interrogare le nuove generazioni sulle responsabilità passate e presenti. O, ancora, come suggerisce Simona Bonaldi, presidente di GAMeC, durante la conferenza stampa: «Quell’installazione invita noi adulti ad alzare lo sguardo e guardare lontano, per costruire un futuro migliore per tutti i bambini che vivono nel nostro territorio». Sempre al quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, Cattelan ha così motivato la scelta del lavoro che coinvolge l’Eroe dei due Mondi «Garibaldi oggi sembra una figura innocua, da libro di scuola. Ma era tutto tranne che innocuo: rivoluzionario, anticlericale, divisivo, persino violento nel suo nazionalismo. Mi interessa questo cortocircuito: come il tempo riesca ad addomesticare anche le figure più scomode».
Scomodo (e, grazie al cielo, mai riabilitato dalla storia) è l’Adolf Hitler inginocchiato, con un sacchetto del pane a coprirgli il capo - ad interrompere il circuito del riconoscimento visivo - protagonista di «No» (in GAMeC). Sebbene alla base dell’oscuramento del viso ci sia una richiesta di censura - scaturita durante una mostra in Cina - quell’occultamento rivela, anziché nascondere: invita a chiedersi quale sia il volto che davvero si cela sotto la carta. Perché «il vero terrore non è riconoscere Hitler: è riconoscere qualcosa di lui, in noi». Viene istintivo inginocchiarsi a fianco della statua, per un selfie: nemmeno «l’ascensore alla cultura» - come ironicamente ribattezzato da Cattelan - Sergio Gandi ha saputo resistere.
Dirimpetto, ecco «Empire»: un mattone di terracotta (che, appunto, riporta tale scritta) intrappolato all’interno di una bottiglia di vetro. Un “message in a bottle” lanciato verso un futuro incerto, ma anche un’ideologia solida - come un mattone - prigioniera di un contenitore fragile, come quel vetro. Riuscirà a romperlo, a fuoriuscire? Chi avrà la meglio nel conflitto tra forza e fragilità, volontà e limite? Ai posteri, l’ardua sentenza.
Attenti: varcare la soglia dell’ex oratorio di San Lupo può far rimanere senza fiato. Sul pavimento di quello che un tempo era l’ossario della vicina chiesa di Sant’Alessandro della Croce - simile a un teatro, con quel corpo a fabbrica centrale totalmente sviluppato in altezza - giace, stramazzata, un’enorme aquila imperiale di marmo: è lei il fulcro di «Bones». Un affascinante riferimento al rapace - ancora conservato nei depositi della Dalmine - che venne realizzato nel 1939 per la decorazione del ceppo commemorativo del discorso che Mussolini tenne, vent’anni prima, agli operai dell’azienda (allora, acciaieria di Stato) rei di aver intentato uno “sciopero creativo” (episodio che diede origine ai Fasci di combattimento). Un simbolo di potere, forza e conquista che giace al suolo - sotto l’affresco della decapitazione di Sant’Alessandro - agonizzante, se non morente.
Chiude (o comincia?) il cerchio, «November», nella sala delle Capriate di Palazzo della Ragione; un clochard in marmo (con le fattezze di uno dei più cari amici e collaboratori dell’artistar, Lucio, mancato due anni fa) accasciato su una panca, con i pantaloni slacciati e una pozza di urina al di sotto. Un monumento all’indifferenza, che innesca una riflessione sulla marginalità, la vulnerabilità e la giustizia: perché Cattelan colloca un homeless nel luogo più nobile di tutta la mostra, nonché sede del tribunale durante la Repubblica di Venezia. Ed è proprio lì, in quello spazio simbolo della giustizia, che troneggia un’opera che obbliga a interrogarsi sulle ingiustizie del mondo.
«Seasons» si inserisce nel quarto ciclo del progetto «Il Biennale delle Orobie - Pensare come una montagna», attraverso cui GAMeC coinvolge le comunità del territorio - grazie alla partecipazione di artisti internazionali - per portare l’arte al di fuori delle istituzioni, avviando un dialogo diretto con le comunità. Rossella Martinelli

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